"Il ricordo più vivo sono le
telefonate fatte ai famigliari, soprattutto quando le cose
andavano male e quando il saluto era impossibile. Sembrava di
stare in un film, era una situazione paradossale, una guerra. Se
poi parliamo di respiratori, abbiamo dovuto fare delle scelte
difficili". In queste brevi frasi del medico anestesista e
rianimatore dell'ospedale di Bolzano, Elisa Bresadola, è
racchiusa la ricostruzione dei momenti più drammatici vissuti
dagli operatori sanitari dell'ospedale di Bolzano cinque anni
fa, quando l'epidemia da Covid19 ha investito l'Alto Adige. Il
territorio è stato uno dei più martoriati dalla pandemia, con
279 decessi registrati nei soli primi quattro mesi del 2020
(dati Istat).
"Avevamo paura - prosegue - non tanto per noi, ma di
portare a casa la malattia; paura di contagiare altri. La
chiamavano la malattia dei 'boh', di cui forse ancora oggi
abbiamo capito poco". L'apprensione per qualcosa che non si
conosceva emerge dalle parole di Marc Kaufmann, responsabile
servizio di terapia intensiva dell'ospedale altoatesino."Il mio
primo ricordo - afferma - sono le voci dei colleghi della
Lombardia che ci chiamarono per dirci di prepararci in ogni modo
perché stava arrivando qualcosa che non avevamo mai visto".
Della mancanza di preparazione iniziale per quei tragici
momenti parlano anche gli infermieri, in prima linea fin da
subito per fare gli esami diagnostici, contenere i contagi,
aiutare in ogni modo i malati. "All'università non ci hanno mai
preparati a mettere le salme nei sacchi, né e a disinfettarli.
Siamo riusciti a fare tutto grazie al lavoro di team", chiosa
Verena Moling.
In alcuni casi, la pandemia ha inciso profondamente sulle
scelte di vita familiare degli operatori sanitari chiamati a
fronteggiarle. È il caso dell'infermiere Sonny Brunoro, che ha
inizialmente scelto di vivere sperato dalla moglie incinta per
evitare di contagiarla. "Lavoravo con molta tensione - rammenta
- cercando di non ammalarmi e di aiutare le persone. L'idea di
mollare ogni tanto c'era, dipendeva dal contesto giornaliero:
magari accudivi una persona per tutto il giorno e alla sera non
ce la faceva. Altri che invece riuscivano a guarire ti davano le
energie per andare avanti".
E se per il medico specialista di anestesia e rianimazione
Elisabeth Gruber ha prevalso su tutto il senso del dovere, e la
consapevolezza del fatto che "in quel momento c'era bisogno del
mio lavoro e della mia professionalità", per l'infermiera
Alessia Zampedri il ricordo ancora vivo è il bisogno di aria
alla fine di ogni turno. "A volte tornavo a casa e non mangiavo,
ma andavo direttamente sul balcone a respirare l'aria fresca:
dopo un intera giornata con mascherina, tute, visiera- dice -
avevo bisogno di aria".
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