(dell'inviato Alessandro Castellani)
Il paese più ricco del mondo contro
quello più povero, con la più alta mortalità infantile e dove si
sopravvive con 1 euro e 90 cent al giorno. Usa-Sud Sudan di
domani al Pierre-Mauroy di Villeneuve-d'Ascq, periferia di
Lilla, non è solo una partita di basket; va molto al di là e in
fondo spiega cosa siano, e significhino, le Olimpiadi.
E' la sfida tra le stelle multimilionarie della Nba e coloro
che si sono autodefiniti "una banda di rifugiati che si
ritrovano per qualche settimana all'anno, e cercano di fare del
loro meglio per poi sfidare i più forti al mondo". E' il match
tra Lebron James, Kevin Durant e Stephen Curry, che giocano
sempre in impianti megagalattici pieni di gente, e un paese che
prima del 2011 nemmeno esisteva e dove c'e' un solo campo al
coperto. "Un anno fa ci allenavamo all'aperto, in campi
allagati, oppure con le aquile che ci sorvolavano
minacciosamente", ha raccontato
- tanto per far capire la situazione - coach Royal Ivey, ex
playmaker nella Nba e anche ex compagno di Durant nel team
dell'Università del Texas. Prima di lui c'era Jerry Steele,
allenatore di college poi diventato una specie di 'predicatore'
che cerca di promuovere il basket nei paesi più disagiati e in
passato ha lavorato anche in Iraq e Siria e allenato la
Palestina.
Il merito del Sud Sudan all'Olimpiade è anche suo, così come
di Luol Deng: lui è un ex Bulls, Miami e Lakers, due volte All
Star, ma anche uno che non ha mai dimenticato le proprie radici
e per questo, dopo aver fondato la federbasket del paese da cui
fuggì da bambino, da 4 anni finanzia di tasca propria il
progetto basket del Sud Sudan: "paga tutto lui: palestre, hotel,
pasti, biglietti aerei", ha raccontato Ivey.
Questa nazionale, che il coach descrive come "il mio raggio di
luce", nel torneo olimpico ha già battuto Portorico e ora sfida
il Dream Team americano. Ma ai Giochi ha rischiato di non
esserci perché nel torneo africano di qualificazione tutta la
squadra contrasse il Covid e dovette ritirarsi. Ripescato per il
forfait dell'Algeria, il Sud Sudan è poi andato ai Mondiali dove
battendo l'Angola ha conquistato l'accesso alle Olimpiadi come
miglior africana, realizzando il sogno della squadra del "paese
che molta gente nemmeno sa che esiste", come dice Wenyen
Gabriel, giocatore anche lui 'tornato a casa' dopo l'esperienza
al Maccabi Tel Aviv. Per la quale nell'esordio all'Olimpiade
hanno suonato l'inno sbagliato, quello dell'altro Sudan. Insieme
a Gabriel in campo vanno un altro ex Nba, Carlik Jones, nato in
Ohio ma di origini sud sudanesi, qualche partita con Dallas e
Chicago, poi al Partizan Belgrado, e gente che a livello di club
gioca in Cina, Uganda e Australia, e ora dovrà reggere la forza
dell'uragano Usa. E' il bello dell'Olimpiade: se succedesse
l'imprevedibile un'altra pagina di storia (o forse di
fantascienza) sarebbe scritta.
Riproduzione riservata © Copyright ANSA