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Responsabilità editoriale di ASviS
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“Ma se po’ sape’ perché questo al primo giorno pija più de me?!”
“Quello è omo, no?!”
Lo scambio di battute tra Delia, protagonista del film di successo “C’è ancora domani” (2023) interpretato da Paola Cortellesi, con il suo datore di lavoro, racchiude il senso del tema di questa settimana, in cui ricorre la Giornata internazionale della parità retributiva il 18 settembre. Il film è ambientato nel dopoguerra, ma quanto è cambiata la situazione rispetto ad allora? Nonostante i significativi passi avanti, secondo il rapporto “Education at a glance” appena uscito, in Italia le donne laureate guadagnano solo il 58% dello stipendio dei loro colleghi maschi, una disparità particolarmente significativa se confrontata con la media degli altri Paesi, dove le donne percepiscono in media il 17% in meno rispetto agli uomini.
Uno spreco di talenti che non riguarda solo la differenza salariale: le donne sono più spesso disoccupate o hanno part-time involontari, con la maternità le loro carriere sono penalizzate a causa della mancanza di aiuti e servizi, hanno minori possibilità di accesso ai ruoli apicali in aziende e organizzazioni. L’intera questione donne-lavoro-figli è fortemente al centro del dibattito politico e pubblico: dal discorso di Mario Draghi durante il Festival del Corriere della Sera “Il tempo delle donne” al rapporto di Ambrosetti sull’empowement femminile presentato al Forum di Cernobbio del 6-8 settembre, fino alla proposta del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti per potenziare gli aiuti alla natalità, per citare gli ultimi episodi. Ed è posta al centro non solo per una questione di civiltà e di diritti delle donne, e nemmeno soltanto perché riguarda la maggior parte di noi (direttamente in prima persona o le vostre mogli, amiche, figlie), ma anche perché influenza in maniera significativa l’economia del nostro Paese. Per riflettere sul tema partiamo con il discorso dell’ex presidente del Consiglio.
“La parità non si fa per decreto, ma bisogna costruire le condizioni”. Intervistato il 12 settembre dal direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana, Draghi si è espresso in merito all’occupazione femminile evidenziando la necessità di agire attraverso due leve: “La prima è creare il tempo perché la donna possa lavorare. Se non ha aiuto, se non c’è l’asilo nido, se è come è in tante parti d’Italia oggi, non ha tempo per lavorare, quindi la prima cosa è costruire dei servizi che diano tempo”; la seconda riguarda gli incentivi alle imprese, perché “quando si va a vedere il costo dell’occupazione femminile, includendo la maternità, si vede che costa di più di quella maschile. Lo Stato copre soltanto l’80% delle spese di maternità obbligatoria. Poi ci sono i contributi e poi i costi di sostituzione della maternità”, dunque, “la seconda serve a retribuire le donne allo stesso livello degli uomini senza scuse. Una delle frasi che non sopporto è ‘mi va in maternità’. Ma la gente che paga le donne meno degli uomini per fare lo stesso lavoro, sa che sta andando contro la Costituzione?”.
Sul tema delle quote rosa Draghi ha specificato che averle “non significa far emergere donne non qualificate, ma far emergere donne qualificate che altrimenti non avrebbero quell'occasione”. Mentre sulle penalità nel mondo del lavoro, ha sottolineato la necessità di “creare un ambiente professionale ospitale”, poiché molte donne vengono assunte e poi se ne vanno, e introdurre misure come quella fatta quando era presidente della Bce, ovvero “cambiare la composizione di genere delle commissioni che selezionano le persone per la promozione”.
Che la mancanza di tempo e le condizioni sfavorevoli siano il nocciolo del problema dell’occupazione femminile lo si può cogliere facilmente dalle esperienze di vita quotidiana. Quando incontro altre mamme a scuola, a lavoro, a sport delle mie figlie, le testimonianze che ascolto hanno sempre molti elementi in comune: la maggior parte di loro con i figli ha dovuto lasciare il lavoro per motivi organizzativi, alcune hanno rinunciato ai loro sogni per optare necessariamente per un part-time che dava più flessibilità e consentiva di prendersi cura di figli o genitori anziani, altre non sono interessate a dare alle baby-sitter tutto ciò che guadagnano, altre ancora mi dicono che “con la maternità hanno perso il treno della crescita professionale” rispetto ai colleghi maschi, per non parlare poi delle battute sessiste sul lavoro e delle richieste inappropriate al colloquio di lavoro se interessate a diventare madri a breve.
Per la gestione chiaramente ci si può sempre organizzare, ma la verità è che la vita di tutti i giorni come madri lavoratrici è fatta di continui imprevisti, e che se ci sono imprevisti spesso si dà per scontato che debba risolverli la donna. Quando la scuola annuncia uno sciopero, vuol dire che solo la mattina stessa si scoprirà se poter andare al lavoro oppure no (e quindi la baby-sitter non è un’opzione), dunque la madre deve essere a disposizione; se ci sono disservizi alla materna (termosifoni non partiti un giorno, niente acqua un altro), molti più di quelli che uno possa pensare, la mamma deve andare di corsa a riprendere il figlio a scuola; se tuo figlio è malato (al nido mediamente un giorno sì e l’altro pure), va portato dalla pediatra e va tenuto a casa, e difficilmente una baby-sitter vorrà tenerselo con la febbre; se la palestra di ginnastica di tua figlia dall’oggi al domani chiude per un mese per lavori indetti dal Comune, salta tutta la pianificazione familiare. È solo qualche esempio di esperienze che ho vissuto direttamente in prima persona, e che mi hanno portato a chiedermi tutte le volte: ma come fa chi non ha i nonni disponibili o non ha un lavoro flessibile? La rete di nonni ormai svolge un ruolo fondamentale nella pianificazione familiare per chi li ha a disposizione, ma con l’aumentare dell’età in cui si fanno figli e gli spostamenti per necessità lavorative, molti i nonni a disposizione non li hanno, oppure li hanno ma non sono in salute (e anzi magari vanno aiutati), o li hanno in un’altra città.
E allora è lì che entra in gioco l’importanza dei servizi. Servizi che siano affidabili, che diano alle donne il tempo di dedicarsi al lavoro, che possano supportarle a gestire gli imprevisti, magari anche attraverso reti di collaborazioni territoriali. Lo smart working è oro per una madre, ma può diventare anche una pericolosa arma a doppio taglio se mal gestito, generando situazioni di stress in cui vita personale e professionale sono così intrecciate da portare le donne a sentire di star svolgendo male sia il ruolo di lavoratrice che quello di madre. Servono ambienti di lavoro rispettosi delle donne e delle esigenze familiari, che siano flessibili, che sappiano accettare la maggiore presenza femminile nei ruoli apicali non perché “si deve”, ma per cogliere l’opportunità data dalle diversità. Servono mariti che non diano per scontato che la gestione dei figli e della casa debba ricadere in primis (se non esclusivamente) sulle loro mogli: se ci sono imprevisti, è un problema di entrambi da risolvere alternandosi. Serve collaborazione tra genitori lavoratori per supportarsi a vicenda, laddove i servizi non arrivano. Occorre migliorare la qualità delle condizioni di lavoro per le donne, a partire dalla tipologia di contratti, dall’equità di retribuzione e da soluzioni flessibili volte a un migliore equilibrio tra lavoro e vita privata.
Secondo l’osservatorio sull’empowerment delle donne presentato a Cernobbio, nel 2022 oltre 44mila madri in Italia hanno lasciato il lavoro (pari al 73% del totale dei genitori che si sono dimessi), il 63% di loro a causa della difficoltà di conciliare vita professionale e vita privata, contro il 7% dei padri. Inoltre, l’Italia è la nazione conla più alta quota di donne con part-time involontario su 27 Paesi Ue (52,6% contro una media del 23%). Sempre secondo i dati dell’osservatorio emerge che una donna che vive in Francia, Italia, Spagna o Germania (Big 4 Ue) svolge in media 4,4 ore di lavoro di cura non retribuito al giorno, per un importo pari a una perdita di 500mila euro durante la sua vita lavorativa. Il tema della disparità economica, poi, interessa l’intera vita della donna, influenzata dal fatto di avere dei figli a casa, dal fatto che il salario degli uomini aumenta più velocemente di quello delle donne a parità di titolo di studio e intensità lavorativa, e dalla maggior concentrazione di queste ultime nei settori caratterizzati da paghe più basse. Uno svantaggio economico che si protrae fino alle pensioni.
di Flavia Belladonna
Fonte copertina: vadimgozhda, da 123rf.com
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