Debutta al Teatro Biondo di
Palermo, martedì 11 marzo alle ore 21, Sarabanda di Ingmar
Bergman nella traduzione di Renato Zatti, con la regia di
Roberto Andò. Con Renato Carpentieri, Alvia Reale, Elia
Schilton, Caterina Tieghi.
Coprodotto da Teatro di Napoli - Teatro Nazionale, Teatro
Nazionale di Genova e Teatro Biondo di Palermo, lo spettacolo
replica fino a domenica 16 marzo.
Le scene e le luci sono di Gianni Carluccio, i costumi di
Daniela Cernigliaro, le musiche di Pasquale Scialò, il suono di
Hubert Westkemper.
«Sarabanda - spiega Andò - è il film-testamento di Ingmar
Bergman. Il grande regista lo girò nel 2003 con una telecamera
digitale, affidandolo a due attori simbolo della sua filmografia
come Erland Josephson e Liv Ulmann. È concepito in dieci scene
in cui, volta per volta, si avvicendano due dei quattro
personaggi che ne compongono il disegno. Una struttura musicale
che allude alla sarabanda, una danza per coppie solenne e
lasciva che venne proibita nella Spagna del sedicesimo secolo,
per poi essere adottata da grandi compositori come Bach o
Handel».
In questa sorta di testamento artistico, il maestro svedese
torna a parlare dei protagonisti di Scene da un matrimonio
diventati, trent'anni dopo, più maturi ma anche più spietati. Il
loro è un ultimo confronto che, in presenza di un figlio e di
una nipote, evidenzia le molteplici sfumature delle relazioni
umane e familiari e la loro capacità di generare rimpianti,
rimorsi, rancori. Il mistero dell'amore e dell'odio,
l'ineluttabile conflitto tra genitori e figli, tra indifferenza
e attaccamento morboso, la vecchiaia, l'angoscia degli "ultimi
giorni", lo scenario della vita, "troppo grande" per la
debolezza umana, sono i temi di questa Sarabanda, danza lenta e
severa in cui le coppie si formano e si disfano: dieci scene,
dieci dialoghi in cui i personaggi s'incontrano a due a due, per
sciogliersi definitivamente nell'esecuzione di padre e figlia
della omonima suite bachiana.
Un testo scomodo nella sua cruda onestà, ma il cui vero
messaggio non è affidato alle parole, ma ai silenzi e ai gesti:
alla tenerezza di un abbraccio, di un tenersi per mano, di un
denudarsi accettando di rivelare l'uno all'altro la fragilità di
corpi segnati dal tempo e dal peso di vivere.
«Il Bergman di Sarabanda - sottolinea ancora il regista - non
sembra credere più a nulla, è disperatamente distruttivo, e
incatena i propri personaggi a un pessimismo totale sul senso
delle relazioni umane».
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