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Lidia Ravera, volevo essere un uomo

Lidia Ravera, volevo essere un uomo

Storia di una ragazza tra lavoro e libertà di critica

ROMA, 07 marzo 2025, 15:19

di Elisabetta Stefanelli

ANSACheck
- RIPRODUZIONE RISERVATA

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   ''Imprigionata in un corpo di donna, ti pareva che nessuno prendesse sul serio le tue parole, i ragionamenti spericolati, l'esercizio costante di una immaginazione impegnata a rimuovere gli schemi del passato, per inventare un presente diverso, un futuro possibile. Ti pareva urgente immaginare e ti pareva doveroso criticare. Scrivevi ovunque ti lasciassero scrivere''. Per questo anche Lidia Ravera sostiene ''Volevo essere un uomo'', titolo emblematico della sua ultima pubblicazione per Einaudi che è l'ultimo (in ordine di tempo) capitolo di quella avventura di scrittura lunga quanto la sua vita passata lavorando soprattutto, perché ''il lavoro era la spina dorsale'' della sua vita. Un libro che è un ponte tra passato e futuro, passando attraverso il presente.

    Si parte dall'infanzia torinese, in una famiglia di cui le rimane la ferma convinzione che avrebbero voluto un maschio, figlia che si sente indesiderata tanto da spingerla ad una ribellione dagli schemi già connaturata. Dopo una serie di fughe, da Torino, da Venezia (dove va a studiare fuori sede cinese e russo senza mai affrontare nemmeno un esame), da Milano (per la prima esperienza di vita di coppia), che la portarono fino a Roma per rimanerci una settimana che poi divenne una vita, quarantotto anni per la precisione. Di questo si parla in questo bel libro, appassionato, in cui la scrittrice e giornalista racconta la sua formazione, ben prima di quel titolo celebre, Porci con le ali, che ne determinò ''l'imprevisto successo'' e che il compagno d'avventure, Marco Lombardo Radice (''il gigante spettinato") trattò ''con altezzoso menefreghismo.

    Partì per un teatro di guerra, rispolverando la sua laurea in medicina''. Un successo ''imprevisto. Rapace. Un'aquila che scende ad ali spiegate e si avventa su due inermi ragazzini'', quello di Porci con le ali. Era il 1976 e lei aveva 25 anni e dietro le spalle bugie, fallimenti e fughe per superare il gap di essere donna. Spiega Lidia Ravera che ''l'ultimo degli uomini ha un vantaggio sulla prima delle donne dalla nascita''.

    Una vita di ''disordine fecondo'', che sembra oggi essersi in parte spenta e che ci trascina verso un'era di esseri artificiali che la incuriosisce, perché la curiosità è la sua prima legge. Insieme al dovere di critica che le è rimasto e che esercita con senso assoluto di quella libertà che ne ha segnato la storia e che mira a sminare gli archetipi che resistono.

    Dovere di critica oggi anche nei confronti delle femministe: ''Il femminismo popolare oggi, quello dell'uguaglianza, delle belle carriere presentate come rarità entusiasmanti, non mette in discussione 'i fondamentali', primo fra tutti l'obbligo, esclusivamente femminile, di corrispondere al modello estetico del momento''. Ma perché voler essere uomo, se non manca la convinzione che il corpo di una donna è di più, : ''tu vorresti essere un uomo per calcolo, per opportunità, per pigrizia, per paura. Ma soprattutto per partecipare a quella tradizione virile e gentile di darsi valore uno con l'altro. (Noi donne non abbiamo ancora imparato, ma ci stiamo lavorando)''. 

LIDIA RAVERA, 'VOLEVO ESSERE UN UOMO' (Einaudi, pag. 138, Euro 15,00) 

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