All'inizio "l'archeologia dei Paesi
più importanti dell'Europa occidentale nei Paesi del vicino
orientale ha una storia complessa" perché i nostri Paesi
"cercavano l'acquisizione patrimoniale, per esempio dei rilievi
degli Assiri, basta andare al British museum per accorgersene",
ma poi "si è sviluppata in modo in positivo". Lo racconta
all'ANSA Paolo Matthiae, conosciuto come l'archeologo di Ebla,
località della Siria settentrionale nella quale ha lavorato per
una cinquantina di anni, oltre ad essere professore emerito alla
Sapienza di Roma e accademico dei lincei.
"Oggi si fa molto parlare in maniera un po' vacua del post
coloniale, non è tanto importante questo, ma il modo con cui noi
archeologi lavoriamo, in questi Paesi, lo spirito con cui ci
comportiamo con i nostri colleghi" spiega Matthiae, segnalando
però che "la cosa essenziale è qualcosa che da una parte non si
può imparare e dall'altra non si può insegnare, qualcosa che è
innato nella nostra natura".
L'archeologo lo spiega attraverso un aneddoto della sua
esperienza: "Ho cominciato a lavorare nel 1964, in quella che
dopo cinque anni è diventata Ebla, e ho sempre tenuto al modo
naturale di comportarmi con i miei operai. Quando ho cominciato
a lavorare avevo 24 anni - spiega Matthiae - e in 47 campagne di
scavo non c'è stata una volta che alle 4.30/5 di mattina non
facessi l'appello degli operai personalmente. Questo significava
che gli operai mi consideravano sì il mudir, cioè il direttore
della missione, e avevano grande rispetto per me, ma mi
consideravano una parte importante della comunità" ha concluso
il professore.
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